Pietro che parlava con gli animali

di Emanuela Nava

Lo avevano soprannominato Selvatico per il suo modo di sfuggire agli sguardi, a volte anche alle carezze, di abbassare gli occhi quando i maestri gli rivolgevano la parola. Si faceva toccare raramente. Non gli piaceva che gli stringessero la mano, neppure che lo abbracciassero all'improvviso. Ma quel soprannome non lo sopportava. Gli veniva una rabbia terribile quando lo sentiva. Allora prendeva a calci i sassi, gridava, scendeva dalla bici, si buttava in ginocchio e picchiava forte i pugni sulla terra dura. Capitava, mentre tornava a casa, lungo la strada che si apriva tra i noci e i castagni. Ripensava a quello che era accaduto: agli scherni dei compagni, agli sguardi severi degli insegnanti che lo fissavano quando si rifugiava in fondo all'aula, dietro l'ultimo banco, come in una tana di cinghiale.
Ma quando arrivava fino al borgo e passava davanti alla casa di Wanda, con le gambe che pedalavano forte, e con gli occhi che la cercavano piano, sentiva il cuore in gola.
Erano stati gli animali a dirgli che degli esseri umani non bisogna mai fidarsi. 
-Di nessuno?- aveva chiesto Pietro.
-Di nessuno.- aveva risposto il cinghiale capo. 

Era accaduto sotto il noce. Un noce antico dalla chioma severa. Nulla trapelava dai rami fitti. Nulla sfuggiva, neppure un segreto. Pietro era andato a parlare con gli animali, come faceva sempre quando tornava da scuola.
Si rifugiava sotto l'albero e aspettava. Prima arrivavano i cinghiali, poi le volpi e le faine. C'erano anche i ricci, le lepri e i gatti selvatici. 
Di solito gli animali raccontavano le storie del bosco: piccoli avvenimenti di tutti i giorni. La ghiandaia che, sfuggendo alle grinfie della faina, aveva sparso di piume azzurre il cespuglio di more. La biscia dal collare bianco che aveva mangiato tre rospi smeraldini. Il tritone crestato che aveva indossato la livrea nuziale. E la lucertola che per non farsi catturare dal gatto aveva perduto la coda.
Nel bosco la caccia era ammessa.
-E' come una caccia al tesoro. Fa parte della natura.- diceva il vecchio cinghiale capo. -Purché non si esageri.
Pietro ascoltava. Aveva imparato a riconoscere i versi degli animali e a imitarli senza fatica. Possedeva un lungo tronco cavo che suonava come uno strumento musicale. Aveva coperto i bordi con la cera e ora soffiando forte poteva imitare le voci del bosco. Il canto degli uccelli, il grugnito dei cinghiali, persino l'urlo del vento.
Era un bambino molto coraggioso, Pietro. Sapeva distinguere le impronte degli animali. L'orma leggera del gatto, e quella della volpe con il segno delle unghie ben in evidenza. Sentiva da lontano l'odore amico degli scoiattoli e la puzza acre della vipera. Sapeva distinguere le erbe buone da quelle velenose.
Sua madre curava l'orto e il frutteto. Suo padre allevava le api. Aveva tre file di arnie sul prato. Quando era il momento indossava i guanti spessi e la rete a maglie strette che gli copriva il viso. Allora anche lui si preparava. Prendeva il tubo, faceva schioccare la lingua, sibilava un suono lieve. Era una specie di canto, un soffio di vento. Era un operazione difficile, svuotare i favi, occorrevano gesti lenti e sicuri. Suo padre si muoveva piano. Pietro lo osservava e cantava. Pareva un fischio d'uccello, la sua voce. Era appena un cenno, ma bastava a calmare le api soldato. 
Allora la raccolta diventava un gioco festoso. Il miele era così buono che Pietro ne mangiava a piene mani.

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