L'uomo che lucidava le stelle

di Emanuela Nava

Avevo dieci anni quando conobbi l'uomo che lucidava le stelle. Possedeva secchi, stracci e un lungo spazzolone per giungere così in alto. Non lo vidi mai mentre compiva il suo lavoro, ma notai che le stelle diventavano ogni sera più splendenti. Era un uomo di mezza età che camminava con un bastone e, anche al buio, indossava un paio di occhiali scuri.

Allora vivevo in cima a una collina. Dalla finestra della mia camera scorgevo i campi di girasoli e, oltre i campi e il frutteto di melograni, gli olmi, la quercia e il laghetto con le anitre che galleggiavano. Erano anitre di plastica che i cacciatori avevano fatto scivolare nel laghetto come richiamo per le anitre vere. Qualcuna è ancora lì dopo tanti anni, verde di sporco e di muffa, anche se il capanno è stato distrutto e i cacciatori tornano di rado a nascondersi tra le canne alte.

Ma quando ero un bambino spiavo i cacciatori. Il sabato e la domenica mi svegliavo all'alba per vederli entrare nel casotto di legno che avevano costruito in riva al lago con le finestrelle lunghe e strette per i fucili.
Sparavano.
Un suono sordo che si alternava al canto dei galli del mio pollaio e al tonfo delle anitre che cadevano. Provavo pena per le anitre. Morivano, perché volevano fare amicizia con le loro compagne di plastica, ecco quello che pensavo.

Allora sussurravo una preghiera: canna, capanna, zanna.
Mi rivolgevo agli elefanti mentre le anitre morivano, agli elefanti bianchi che vivono in cielo e fabbricano le nuvole: era a loro che affidavo lo spirito delle anitre cadute. I corpi, sarebbero stati mangiati: non credo che nessun cacciatore li abbia mai imbalsamati.

Quando le anitre cadevano in acqua, anche se l'acqua era gelida, i cacciatori mandavano i cani a pescarle. Non so cosa ricevessero i cani in cambio di tanto freddo e tanta fedeltà. Li ho spiati a lungo, seduto in riva al lago, ma non sono mai riuscito a capire se fosse bastato un tozzo di pane o un biscotto. Che fossero affamati non c'era dubbio: i cani sono sempre affamati.

Ma se volete sapere come stavano le cose, ai cacciatori non piaceva che li spiassi.
Mi hanno minacciato molte volte. Cercavano di intimorirmi evocando poliziotti e guardie forestali. Nominavano anche mia madre, ma lei lavorava in una birreria, tornava tardi di notte e a quell'ora dormiva, non c'era verso di svegliarla.

Fu a settembre, a fine estate, quando stavo per compiere undici anni che accadde. Sapevo bene che l'infanzia sarebbe finita con l'ingresso nella prima media. E con l'infanzia sarebbe finita anche la capacità di vedere quello che i grandi non possono vedere, a meno che non siano matti.
– È solo ai bambini e ai matti che l'universo ha permesso di essere profetici.- sussurrava spesso l'uomo che lucidava le stelle.

Ada, la signora che camminava lungo i sentieri del laghetto con un piccolo maiale al guinzaglio, cadde in acqua: fu questo quello che capitò. Cadde mentre si spostava per lasciare passare scampanellando il corteo degli sposi. Un lungo corteo di biciclette cromate con i manubri inghirlandati di palloncini e fiori di campo.
Anche la sposa aveva fiori di campo intrecciati fra i capelli e un lungo vestito bianco che cercava di salvare dal grasso della catena. Era seduta sul sellino posteriore di un tandem. Pedalava insieme allo sposo, ma, occupata com'era a reggere lo strascico, sembrava che si facesse trascinare.

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