Canzoni di amore e di guerra

di Emanuela Nava

Accadde. Era sempre accaduto. Lui aprì la porta e scivolò nella luce del sole che illuminava quello che era rimasto dei campi, zolle riarse e spighe bruciate. Ma girandosi per salutarmi, all’improvviso disse: -Il tempo di una canzone. La radio era accesa e il cantante intonava parole in una lingua che non capivo. Era una delle tante lingue che parlava la gente della mia terra. Solo nel ritornello riconoscevo una frase che diceva: l’amore del passato è nel futuro. E poi ancora qualcosa che faceva rima con nostalgia. -Solo una canzone.- ripetei a voce alta, fissando la porta di legno, che si era chiusa con il consueto scatto della serratura. Accanto alla porta c’era un armadio. Era in quell’armadio che lui, da bambino, mi chiedeva di custodirgli le spade di cartone, gli elmi che piegava e ripiegava con le pagine del vecchio giornale di mio padre. Anche le medaglie: tappi di bottiglia che colorava e indossava fiero sul petto. -Ti difenderò.- diceva, vestendosi da generale e andando all’aperto, lungo la strada, a raccogliere le sue truppe, bambini come lui con i quali rinnovava a ogni gioco sentimenti di amore e amicizia, che solo la morte avrebbe potuto spezzare. -Non odio il nemico.- diceva con voce che a un tratto risuonava adulta, mentre si svestiva e riponeva armi e armatura nell’armadio della mia casa. –Anche il nemico come noi ha giurato fedeltà eterna al suo generale. Ma io combatterò. Pur con animo sereno, mi getterò nella mischia per salvarti. Nessuno ti porterà via da me. Ridevo allora alle sue parole. Parole di bambino che giocava all’amore e alla guerra. Ci abbracciavamo, scambiandoci baci misteriosi, senza schiocco, che ci davamo strusciando i nasi. Lui usciva da quella porta e poi rientrava. Aveva sempre qualcosa di nuovo da cercare nell’armadio: lance, scudi, fucili, bombe. Un inventario di armi che appartenevano alla storia del mondo. I fucili, le lance e le spade di cartone dipinto venivano riposti nell’armadio con la punta all’insù. -Verso il cielo.- diceva lui. Credo intendesse verso un cielo immaginario. Era scuro dentro l’armadio: non c’era traccia né di nuvole né di stelle. Durante il gioco della guerra, mentre si preparava a combattere, sono certa che invocasse nel suo cuore un cielo coraggioso che lo proteggesse dalla paura e dalla viltà. Ma credo anche, seppure a quei tempi non lo comprendessi, che pregasse un cielo capace di proteggerlo dall’ira, dal rischio di una giovinezza incapace di rispettare, con autentico coraggio guerriero, le norme della pace. Giocava alla guerra vestito di carta e cartone, ma forse pensava già alla guerra vera, quella che sarebbe venuta più avanti, mentre la radio continuava a suonare e la voce cantava di un amore che abbracciava il passato e il futuro.

Torna indietro