Andrea e Lu e la zuppa di pesce stellare

di Emanuela Nava

Avevo undici anni e un mese quando venne il diavolo sotto la mia finestra. Era fermo sul marciapiede e si sbracciava. Rosso, con il forcone, le corna appuntite e le mani pelose. Accanto, unito a lui per la cinta da una corda bianca, saltellava un angelo. Non era uno dei soliti angeli biondi con le ali spiegate. Aveva i capelli molto scuri e indossava stivaletti di cuoio.
-Buongiorno Andrea!- disse il diavolo.
-Come va?- disse l'angelo.
Mi ero affacciato dal primo piano e guardavo la strada polverosa senza parlare.
-Ti fermerai molto lassù?- chiese il diavolo con un ghigno sinistro.
-Dovresti scendere.- sorrise l'angelo.
-Le cose migliori capitano quaggiù.- confermò il diavolo.
Sospirai, protetto dalle pareti azzurre della mia stanza.
-Andrea!
-Andrea!
Il diavolo e l'angelo ripeterono il mio nome. Lo fecero più volte, pronunciandolo prima con solennità, poi con maggiore naturalezza. Alla fine si misero a miagolarlo, pigolarlo, ragliarlo, barrirlo, come se non fosse stato solo un nome, ma l'insieme di tutti i versi del bestiario universale. Era il diavolo che iniziava con voce più roboante, mentre l'angelo che gli faceva eco, manteneva un tono più lieve.
Ma quando l'angelo estrasse dalla cintura un flauto traverso e lo suonò alternando impeto e delicatezza, il diavolo cominciò a cantare, intonando il mio nome con gli stessi toni acuti e grevi con cui si sarebbe esibito un tenore.
Cantava così bene il diavolo, che qualche passante si attardò lungo la strada e una bicicletta scampanellò un saluto di allegrezza.
Allora, mentre l'angelo, a causa della corda che lo legava, suonava seguendo l'altro a ogni passo, il diavolo tolse dalla tasca del suo vestito rosso un gessetto bianco e tracciò un cerchio sul marciapiede.
Era un cerchio grande che avrebbe potuto racchiudere anche me se fossi sceso e li avessi raggiunti.
Ma avevo anch'io un filo che mi tratteneva in quella stanza dalle pareti azzurre.
- Andrea, Andrea.- continuava a gorgheggiare il diavolo.
- Andrea, Andrea.- soffiava l'angelo dentro lo strumento, modulando le note come fossero state le lettere del mio nome. E mentre schiacciava i bottoni di metallo con i polpastrelli, soffiava, inclinando il capo, appena la musica si faceva più profonda o ardita.
Battei i piedi, poi le mani, diedi un inconsapevole strappo al filo.
-Ciao! Dove state andando?- gridai dalla finestra spalancata.
-Da nessuna parte. Siamo venuti qui per te. Perché non scendi?- rispose il diavolo, sospendendo il canto.
-Non posso, non posso!- dissi con il fiato corto e il cuore che batteva troppo forte. –Adesso proprio non posso.
Allora l'angelo saltellò, facendo piroettare i tacchi e il suo flauto argentato.
-Ti aspetteremo, se vuoi!- suonò. Erano solo note le sue, ma vibranti e chiare come fossero state parole pronunciate.
-Sì, sì, aspettatemi!- esclamai con una furia che stentavo a contenere.
Era una mattina di sole. Di pieno sole, nonostante fosse marzo. Una bella mattina di festa in cui le scuole erano chiuse e l'aria era calda.

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